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“Il saccheggio del mercato del lavoro: Sergio Morisoli lancia l’allarme e suona la sveglia

Se su un campo di calcio ci fossero 11 giocatori da una parte e 220 giocatori dall’altra, sarebbe una strana partita di calcio. Qualcuno, potrebbe ragionevolmente sostenere che si sta svolgendo un match equilibrato? Che le forze in campo si equivalgono o che le condizioni di parità di partenza sono date? Che è una sana competizione e che vincerà il migliore? O ancora, qualcuno si aspetta uno spettacolo degno del miglior calcio?

Questa analogia serve per descrivere in termini pratici e osservabili, anche per i non economisti, la situazione del mercato del lavoro ticinese. Sono proprio le proporzioni del mercato del lavoro domestico, circa 200’000 ticinesi e residenti occupati contro potenzialmente 4 milioni e 400 mila frontalieri che potenzialmente potrebbero prendere i loro posti di lavoro; una proporzione da 1 a 20. Un lavoratore locale ha ormai potenzialmente come concorrenti 20 lavoratori frontalieri; o in altre parole, potrebbe essere sostituito con una delle altre 20 persone.

Cosa farebbe la Lombardia (e l’Italia) se ogni mattina ci fossero potenzialmente 120 milioni di lavoratori ticinesi pronti ad occupare i suoi 6 milioni di posti di lavoro? Cosa farebbe questa Regione se i suoi lavoratori fossero costretti, per mantenere il posto, ad accettare salari del 30% fino al 50% inferiori rispetto a quelli da loro percepiti fino alla sera prima? Viste le sproporzioni di forze in campo è più una questione di leggi fisiche che di leggi economiche.

Ci sono due categorie di economisti. Quelli che con la loro arte numerica sanno descrivere ciò che gli piace ma anche con la stessa arte negare ciò che non gli piace. Poi c’è la categoria di quelli eccezionali, che sanno fare entrambe le cose ma vanno oltre; hanno antenne e sensori più sofisticati per capire meglio e prima degli altri il tutto, staccandosi dalle partigianerie; sono i premi Nobel (per esempio Kennet Arrow, Amartya Sen o Angus Deaton).

L’EFFETTO SOSTITUZIONE TOCCA ANCHE I FRONTALIERI

Chi scrive ovviamente fa parte miseramente della prima categoria, sono di parte e vedo parzialmente la realtà. Detto questo, non va lesinato nessuno sforzo per affermare e dimostrare che il mercato del lavoro ticinese è saccheggiato. Lo scopo? Provare a rimetterlo in sesto. Gli ultimi dati dicono che il Ticino ha perso la metà dei posti di lavoro che sono stati persi in Svizzera l’anno scorso; ma dicono anche che i frontalieri sono aumentati e che i lavoratori stranieri  in Ticino sono diventati la maggioranza 52.1% (121’900). In parallelo il salario mediano del settore privato è diminuito da 5262 a 5163 è il valore che indica il 50% di chi è sopra e il 50% di lavoratori che sono sotto. Dal 2000 è la prima volta che invece di crescere, diminuisce; ed è costantemente inferiore al salario mediano del resto della Svizzera.

Questi i dati sintetici: più frontalieri, perdita di posti di lavoro, più disoccupati, paghe che precipitano, aumento del malessere sociale (welfareindex a 123.4 punti). Si può continuare a negare la realtà e a minimizzare le contraddizioni del mercato del lavoro, ma non si può più sostenere che non ci sia un effetto di sostituzione di lavoratori domiciliati con lavoratori frontalieri. Se i posti di lavoro sono diminuiti e i frontalieri sono aumentati significa che nei posti rimasti sono stati licenziati ticinesi e assunti frontalieri.

Ci possono essere molte ragioni, ma quella più imponente è quella degli 11 giocatori da una parte contro i 220 dall’altra. Se per 1 posto hai 20 frontalieri a disposizione, su questi 20 troverai sempre qualcuno che è disposto a lavorare per meno di chi occupa già il posto, addirittura la catena inizia anche a seminare panico tra i frontalieri stessi. I frontalieri sostituiti da frontalieri al ribasso inizia essere una via praticata. Tra i 20 ne troverai sempre uno che vuole meno.

NON È UNA QUESTIONE DI COMPETENZE MA DI SALARI AL RIBASSO

Oggi sappiamo che a parità di competenze questa catena del disvalore scende da metà fino a due terzi dello stipendio necessario per vivere, non nel lusso ma dignitosamente in Ticino. Se fosse, come spudoratamente spesso si vuol far credere, che è una questione di competenze e di formazione elevate, più alte di quelle finora assunte e che non si trovano in Ticino, allora le paghe non scenderebbero. Quando mai una merce rara e necessaria ha un costo che si abbassa sempre di più?

Allora forse non sono le competenze a mancare ma a pari competenze a mancare è la disponibilità a pagare il lavoro secondo i canoni del mercato svizzero e non del mercato d’oltre confine. Qui il discorso si allarga. Nessun imprenditore ha interesse a pagare poco correndo il rischio di qualità difettosa e lavori mal fatti. Quindi vi è da presumere che i lavori continuano ad essere ben fatti anche sostituendo persone “care” con persone a “buon mercato”.

Ci viene detto che i frontalieri hanno “fame” mentre i nostri sono “viziati”. Difficile capire anche qui perché uno che ha fame dovrebbe accontentarsi poi di nutrirsi meno di chi non ha fame; forse all’inizio ma poi… Probabilmente invece vi è che con una mezza paga ticinese dall’altra parte non solo ci si sfama ma ci si permette qualche capriccio; mentre la stessa metà di qua ti fa vivere alle soglie della povertà.

Dunque, non sono le competenze a fare la differenza su chi tenere in ditta, o ben raramente lo sono, ma la predisposizione a fare la stessa cosa per meno soldi. Diciamocelo una buona volta. Ragioniamo. Se nessun frontaliere potesse entrare (non me lo auguro mai!) le ditte con sede in Ticino sarebbero molto diverse. Da una parte quelle che possono permettersi di vivere e produrre qui pagando i lavoratori con salari adatti al costo della vita ticinese, e dall’altra quelle che dovrebbero chiudere perché il costo della manodopera renderebbe l’attività deficitaria o quasi. Fosse così il PIL dal 2008 al 2019 non sarebbe cresciuto del 18.9%, gli occupati del 17%; i disoccupati in media annuale ILO del 32.6%; i frontalieri del 55.7% (da 45.154 a 70’333); i lavoratori stranieri sul totale del 36%.

La realtà è un mix di tutte queste cose, e non c’è una linearità “scientifica” per dire quali sono le cause e quali gli effetti. Una cosa è certa, l’economia senza lavoratori stranieri residenti e senza frontalieri sarebbe circa la metà di quella che conosciamo oggi. Il problema non è più a sapere quanti di loro ne abbiamo bisogno, ma quale è la quantità sopportabile per non generare un effetto boomerang di povertà, di minor prosperità e minor benessere ai ticinesi e ai residenti.

E I NOSTRI GIOVANI EMIGRANO…

È un fatto che per i giovani l’entrata nel mercato del lavoro è difficile, e lontana da salari adatti a vivere in Ticino, a pianificare un minimo la vita e pensare a una famiglia; queste rimunerazioni non sono più a portata di mano. Ne consegue che i posti di lavoro di “ceto medio” stanno sparendo, i posti non qualificati aumentano come quelli altamente qualificati ma a salari estremamente bassi. Ognuno di noi conosce ormai almeno un giovane ingegnere o laureato al quale viene preferito un coetaneo lombardo disposto a lavorare anche per meno di 3’000 franchi lordi al mese. La frase riferita ai nostri giovani: “gli fa bene stare un po’ via dal Ticino” è assurda; non è una libera scelta ma una costrizione a “emigrare”, perché il ritorno in Ticino presuppone accettare lavori a salari lombardi.

È una scusa per non dire e non ammettere che in Ticino, nonostante le centinaia di milioni di investimento all’anno, negli ultimi 10 anni, in formazione locale e per gli alti studi, nonostante i costi per le misure di promozione economica, il mercato non è ricettivo di tali valori per trasformarli in occupazione di ticinesi. Il mercato non è disposto a pagare il valore aggiunto delle persone formate e qualificate in Ticino e in Svizzera, trovando suppergiù la stessa “merce” a pochi chilometri a sud. Si potrebbe continuare ma ci siamo capiti.

UN FUTURO DA “RUST BELT” AMERICANA

Quello del mercato del lavoro saccheggiato è un problema enorme, alle nostre latitudini. Se i residenti non hanno lavoro, o ne hanno uno con il quale non riescono a vivere bene, se i giovani sono smarriti e costretti a fare i nomadi rincorrendo lavori precari un po’ qui e po’ fuori dal Ticino; presto o tardi questa crepa strutturale la pagheremo a caro prezzo. Il PIL forse continuerà per un po’ a crescere. Ma quando i consumi interni diminuiranno, quando la quota statale dedicata alla socialità sarà enorme (comincia ad esserlo oggi con circa 700 milioni all’anno) e le imposte da lavoro si ridurranno notevolmente; il debito pubblico alle stelle e sulle spalle di chi oggi frequenta le scuole elementari; allora gli scenari che vediamo nella “rust belt” americana potrebbero essere realtà anche da noi. Aggiungiamoci la galoppante denatalità con l’invecchiamento della popolazione; ossia i pochi che avranno un lavoro pagato male dovranno mantenere i molti che non lavorano, il cocktail esplosivo è presto confezionato.

Le cose si sono deteriorate da tempo, complice la non volontà di studiosi e politici a chiamare le “cose con il loro nome”. E l’incapacità a difendere il proprio ceto medio; quella categoria che ha capito che non salirà più tra i ricchi e che ha paura di finire giù tra i poveri. Quella categoria di cittadini dimenticati che sono i nuovi “reclusi” del sistema: non possono decidere da soli il proprio futuro né politicamente né economicamente. I poveri sono gli “esclusi” mentre i ricchi sono gli “inclusi” del sistema che penalizza il Ticino. Il deterioramento è frutto dell’egualitarismo globale, dell’attendismo passivo delle promesse che i macrosistemi hanno dimenticato di mantenere. Ma è anche colpa nostra con il nostro non coraggio a differenziare.

Il mondo delle aziende non è monolitico. Non si possono definire tutte buone o tutte cattive. Tra i datori di lavoro c’è chi, ed è la maggioranza, è serio, fa fatica, investe e acquista in Ticino, rinuncia agli utili per reinvestirli in azienda, fa sacrifici per non licenziare e fa di tutto per assumere domiciliati ticinesi. Poi ci sono i loro concorrenti locali o quelli senza radici e legami locali, che hanno capito che sfruttare la frontiera come differenziale per approvvigionarsi in sotto forniture e lavoratori italiani a buon mercato è di gran lunga la mossa competitiva più interessante. Più interessante e meno costosa che investire in innovazione, in formazione, in marketing, in ottimizzazione. Poi ci sono quelli che essere in Ticino o altrove fa lo stesso, come fa lo stesso quanto rimanerci; devono rispondere con i numeri a CFO (contabili) anonimi piazzati a migliaia di chilometri da qui, e che magari non sanno la differenza tra Switzerland, Swaziland e Sweden.

La disoccupazione non è un blocco monolitico. Tra i disoccupati ci sono certamente dei lazzaroni, penso siano una minoranza, il sistema generoso gli permette di esserlo, hanno capito perfettamente che il non lavorare dal punto di vista materiale e utilitaristico, in un orizzonte vuoto, non è molto diverso dal lavorare. E che il tirare avanti di giorno in giorno è cultura e non più deviazione. Questa categoria lasciamola stare ha poco a che fare con il mercato del lavoro. Un numero in crescita potrebbe lavorare, ma non hanno (più) o non le hanno mai avute, le giuste caratteristiche, e qui occorre aiutarli, prepararli a ridurre questo svantaggio. Gli altri ancora, e non sono certo pochi, hanno tutto il necessario ma sono sostituiti da chi costa meno.

I FRONTALIERI SONO L’EFFETTO, NON LA CAUSA DEL DISASTRO

È sbagliato dare tutte le colpe ai frontalieri per il nostro mercato del lavoro guastato. Loro sono l’effetto non la causa di questo disastro. Le cause sono tutte nostre: prima, l’accettazione dei bilaterali senza pretendere misure fiancheggiatrici efficaci; seconda, quando potevamo correggerli nel 2007 e nel 2012 la politica estera ticinese (inesistente) e della Confederazione non ha fatto nulla; terzo la non attuazione delle misure di protezione che il popolo ha votato a due riprese; quarto, una straminoranza, ma ahimè molto pregnante, della nostra economia ha abusato a piene mani dei cancelli aperti. Gli effetti sono in certi settori dirompenti, nel terziario e nei settori in cui la nostra disoccupazione galoppa e la preparazione dei nostri giovani è adatta crea frustrazione, rabbia, sfiducia e povertà.

I frontalieri, come tutti, hanno il diritto di migliorare la loro condizione umana, ma simmetricamente una regione, un Paese e una Repubblica come il Ticino ha il dovere di tutelare il benessere, la prosperità e il lavoro sul suo territorio. Il problema lasciato a sé stesso (laissez faire) ci porta alla rovina. Non esiste una legge di mercato in grado di trovare da sola il punto di incontro tra domanda e offerta, quando le condizioni di partenza per permettere alla concorrenza di giocare sono assolutamente sproporzionate. Nessuno ragionevolmente può pensare che le cose si aggiusteranno grazie alla concorrenza e vincerà il migliore.

SALARIO MINIMO E REDDITO DI CITTADINANZA

Alcuni affermano che i liberisti (come me) dovrebbero essere felici quando saltano le barriere. Invece è scorretto pensarlo, perché il mercato, il giusto prezzo, il giusto interesse, il giusto salario, la piena soddisfazione tra chi offre e chi domanda sono possibili solo se la concorrenza, cioè la competizione, può svolgersi nel rispetto delle forze in campo e delle regole imparziali. Anche nella boxe i pesi massimi non combattono contro i pesi piuma. Per finire non si capisce invece come i socialisti e gli statalisti da sempre contrari alle libertà di mercato e favorevoli ad ogni genere di intervento dello Stato in economia, stranamente su questo campo loro sono ultraliberisti: dentro tutti che poi le cose si aggiustano. Un qualche sospetto viene.

Forse la distruzione del mercato indigeno del lavoro è la premessa e va favorita affinché la costruzione di un sistema pianificato e centralista del lavoro possa prendere avvio? O forse torna di moda il tanto peggio, tanto meglio? Le soluzioni scellerate vanno combattute. I minimi salariali imposti dallo Stato non sono altro che il modo più celere per ampliare l’effetto di sostituzione: il salario minimo per i frontalieri sarà il salario massimo dei ticinesi. Il reddito di cittadinanza poi sarebbe la fine, pagare i cittadini per fare nulla e lasciare che altri si sbranino sul mercato del lavoro al posto nostro.

UNA SOCIALITÀ DA RIPENSARE

Qui caso mai ci sarebbe molto, ma molto da dire sull’efficienza e l’efficacia dei soldi spesi dallo Stato in educazione, socialità e promozione del lavoro. Dopo decenni di budget che crescono verso l’infinito sarebbe ora di misurare l’out put (i risultati) rispetto all’in put (i mezzi usati). Sarebbe utile lanciare una sfida: senza tagliare un centesimo, come si potrebbero spendere meglio e in modo più consono alle nuove necessità? Super giù sono quasi 2 miliardi all’anno che finiscono in queste tre categorie.

Senza la presa di coscienza che oltre la domanda e l’offerta di lavoro c’è altro, o in altre parole senza accettare che il lavoro non è solo “una merce di scambio” al prezzo più basso, ma l’essenziale per godere di una buona vita e condurre una vita buona; le regole della globalizzazione e gli accordi bilaterali su questo tema renderanno il Ticino più povero. Non serve sventolare ai quattro venti e ad ogni occasione che i il Ticino è il Cantone con la miglior socialità. È un compiacimento disastroso! La vera e la miglior socialità, dovrebbe essere quella di essere riusciti a dare un lavoro a tutti con salari dignitosi, non quello di riempire le casse per dover distribuire sussidi di ogni genere per permettere alla gente di vivere attorno al minimo vitale.

Di cosa essere orgogliosi, se vince l’assistenzialismo e la dipendenza dalla generosità dello stato, anziché l’autonomia finanziaria delle persone e delle famiglie grazie ai proventi del proprio lavoro? Quando uno Stato si gloria della sua generosità nel fare l’elemosina, fino a pretendere di essere modello per altri Cantoni, quando anziché favorire il principio di più inclusione nel produrre la ricchezza (lavoro) invece di più ridistribuzione (sussidi); quando uno Stato lascia accadere passivamente ciò che sta accadendo sul mondo del lavoro invece di tentare di governarlo con provvedimenti mirati e proporzionati, allora il malcontento potrebbe manifestarsi anche in modo meno soft che votando Lega o lista senza intestazione, o attraverso petizioni online.

GIOVANI E OVER 50 SENZA PROSPETTIVE

Per la prima volta dagli anni ’70, dopo una lunga crescita ticinese, la generazione di chi entra nel mercato del lavoro non sa quando e quanto ci potrà stare. La percezione del tempo e del futuro lavorativo, da parte dei giovani è stravolta. Noi sapevamo che bastava impegnarsi e che avremmo trovato un posto, che avremmo avuto un salario in costante aumento negli anni, e che se il lavoro non ci piaceva più, avremmo potuto facilmente cambiarlo; capivamo senza studi e statistiche che l’economia cresceva e offriva molte opportunità, il merito corrispondeva all’impegno e viceversa. I miei figli, come molti altri giovani, oggettivamente non hanno questo orizzonte e sostituirlo con qualcosa di altrettanto attrattivo non è uno scherzo. Per non parlare degli over 50 ormai appesi al posto di lavoro come d’autunno sugli alberi le foglie.

Come non spegnere il desiderio dei giovani e non subire il disfattismo degli adulti? Questo è il problema numero uno da risolvere che è prodotto dal mercato del lavoro saccheggiato.

Un mercato, qualsiasi mercato, necessità di alcune condizioni assolute e non sindacabili per funzionare: la fiducia tra gli attori, il rispetto dei valori reciprochi, una concorrenza leale, regole del gioco imparziali e chiare, il controllo e le sanzioni in caso di non rispetto delle regole, condizioni di accesso eque e non discriminatorie, il rispetto delle condizioni locali.  Il mercato del lavoro ticinese è saccheggiato perché queste condizioni non sussistono più.

QUANDO LO STATO NON È LA SOLUZIONE, MA IL PROBLEMA

La soluzione non potrà che essere flessibile e selettiva, considerando che disoccupati, aziende, frontalieri e settori economici non sono blocchi omogenei che si scontrano in una lotta dialettica marxista perpetua, ma sono realtà che per esistere e prosperare devono essere permeabili. Il mercato non si aggiusta da solo, quando non è un più un mercato. C’erano modelli nei cassetti federali, nel dopo voto del famoso 9 febbraio 2014 “Stop all’immigrazione di massa”, che andrebbero ritirati fuori; ci sono modelli nei cassetti cantonali, nel dopo “Prima i nostri” che non solo andrebbero tirati fuori, ma finalmente messi in pratica. Inoltre, in un mondo di protezionismo imperante, dobbiamo osare ad attirare lavoro qualificato e ben remunerato (non di sole start up vive l’uomo…). Usando premi fiscali ed altro a favore di chi mantiene e crea questo genere di posti di lavoro rispettando le regole, e smetterla di sussidiare e tenere a galla le attività stracotte e aziende bollite che speculano sulla dignità di chi lavora.

Torniamo al calcio. Se la partita vede 11 giocatori da una parte e 220 dall’altra, la soluzione per riequilibrare il gioco non è ingrandire il campo, cancellare le line dell’area di rigore, le line laterali e di fondo, non fischiare gli off side e i falli, togliere l’arbitro e i guardalinee, permettere tutti i cambi possibili. No, non funziona. Chi poi pensa che allungando il tempo di gioco due, tre, quattro volte i normali 90 minuti poi le cose si aggiusteranno da sole, ha già abbandonato la motivazione e la volontà a far qualcosa.  Quando lo Stato fa l’interventista laddove dovrebbe starsene alla larga, e contrariamente applica il laissez faire laddove dovrebbe attivarsi, possono nascere solo guai. Se questa fosse la strategia dello Stato, anche ticinese, allora aveva ragione Roland Reagan quando citava Milton Friedman: “lo stato non è la soluzione, ma il problema!”.

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